Moglie e Marito: un film sull’empatia. Quando nella coppia c’è una connessione emotiva

“ Un incontro a due, occhi negli occhi,
 volto nel volto, e quando tu sarai vicino
 io prenderò i tuoi occhi e li metterò al posto dei miei
 e tu prenderai i miei occhi e li metterai al posto dei tuoi
allora io ti guarderò con i tuoi occhi e tu mi guarderai con i miei ”
  Jacob Levi Moreno

Moglie e Marito, un lungometraggio di Simone Godano, esordiente regista, destinato a transitare e sostare tra i miei pensieri e le emozioni postumi alla visione del film, tali da sentirmi ispirata e invitata a riflettere con voi sui significati che la pellicola evoca.

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Un film che mette in scena, con un classico espediente narrativo quale lo scambio, lEmpatia, con la “E” maiuscola, nei toni e nelle sue sfumature più colorate, inaspettate, buffe, esilaranti ma anche faticose e dirompenti. Già l’empatia, la protagonista centrale del film che danza all’interno delle dinamiche della coppia,  per raccontare la storia di Andrea e Sofia, che impariamo a conoscere osservandoli l’uno attraverso lo sguardo dell’altra.

Sull’orlo di un divorzio, non ancora annunciato ma fortemente immaginato da entrambi, ad Andrea e Sofia, coppia sposata da una decina di anni con due bambini, capita improvvisamente di scambiarsi le menti e…patatrac!

Andrea e Sofia (interpretati da Pierfrancesco Favino e Kasia Smutinak),marito e moglie, sono dunque costretti a vivere la vita dell’altro con i suoi segreti, le sue difficoltà, i suoi desideri, le sue manie.

In questo modo il regista riesce a parlare del legame di coppia e dell’empatia, facendola sentire allo spettatore, facendoti identificare un po’ nei panni dell’uno e un po’ dell’altra.

Con un tocco divertente e delicato riesci a farci entrare nel mondo del marito, un uomo deciso e sensibile e della moglie, una donna volitiva e forte, sfiorando le differenze di genere, ma non rimanendo ancorato a quelle. Si sforza di far intravedere nuovi modi di mascolinità e femminilità, lontani da quelli stereotipati, non solo sul lavoro, ma anche nell’affrontare la genitorialità

Ciò che mi è piaciuto molto del film, è il tentativo raffinato del regista di rappresentare l’empatia come una danza, un processo creativo  attraverso il quale i protagonisti si avvicinano, si sfiorano, a volte si allontanano, altre si scontrano, e solo così riescono a conoscere veramente chi hanno di fronte. Entrambi i protagonisti compiono un percorso che li porta a comprendere l’altro e dunque a raggiungerlo. E questo movimento ha a che fare con l’essere coppia. E non si esaurisce mai.

Il film è capace di trattare il tema della dinamica di coppia, facendoci sorridere, divertire e un po’ riflettere sull’importanza di creare una connessione profonda con l’altro affinché quell’incontro a due possa durare nel tempo.

La tenerezza. Un valzer emotivo attraverso l’indecifrabile, perduto e struggente desiderio di ascoltare, sentire e amare. Un sentimento da esplorare, fino in fondo, dentro e fuori di noi.

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“Felicità è una casa a cui tornare, indietro, non avanti.” 

Elena (Interpretata da Giovanna Mezzogiorno)

La tenerezza è un film che scava nell’intimo, nella zona cieca di ognuno di noi.

Per questo motivo, ritengo sia importante ed interessante parlarne. Non sono in grado di analizzare la pellicola di Gianni Amelio dal punto di vista cinematografico, ma desidero fortemente esprimere le riflessioni, gli spunti e le emozioni che mi ha ispirato,  innescandomi prima un caos emotivo dentro  e poi piccole stelle danzanti , per dirla alla Nietzsche.  Elio-Germano-la-tenerezza

Lo sguardo melanconico e struggente del regista d’autore, compie un viaggio metaforico e non solo, nei panni dell’anziano protagonista Lorenzo, alla ricerca di un doloroso e ancestrale desiderio di tenerezza, che riscopre nei legami affettivi diversi da quelli di sangue. Il regista, ispirandosi liberamente al romanzo “ La tentazione di essere felici” di Lorenzo Marone, parla agli spettatori attraverso i modi burberi, la solitudine e l’irrequieto malessere nel cuore dell’anziano Lorenzo, un avvocato in pensione dai trascorsi familiari e professionali controversi, che vive nel cuore di Napoli. L’anziano reagisce all’insofferenza dei rapporti familiari, in particolare nei confronti dei figli, da cui rifiuta ogni forma di avvicinamento, con la ricerca di una vicinanza affettiva al piccolo nipote Francesco, sottraendolo di tanto in tanto alla scuola, di nascosto dalla figlia Elena.

L’interesse dell’anziano è risvegliato dall’arrivo dei nuovi vicini di casa, una giovane coppia, Fabio e Michela, apparentemente affiatata con due bambini piccoli, trasferiti dal Nord Italia per motivi di lavoro. L’esuberanza della giovane donna, Michela, la sua spontaneità e il suo essere ancora bambina, scalfisce a poco a poco la scorza dura dell’anziano che, nonostante le difficoltà di relazione con i figli, alterna slanci di sincero affetto ad un ruvido coraggio di avvicinarsi alla famiglia di sconosciuti, svelando un inaspettato desiderio di ritrovare l’allegria, la felicità perduta, il calore familiare.

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La tenerezza è modo per sopravvivere al nostro senso di inadeguatezza, alla paura di non essere all’altezza delle aspettative degli altri, dei ruoli che rivestiamo, un modo per stare a galla nonostante le nostre fragilità. La tenerezza è un valzer di emozioni che oscillano incessantemente dalla paura di restare orfani, incompresi, chiusi nel proprio mondo verso il desiderio di essere raccolti e accolti, anche solo per un attimo, dall’incontro con uno sconosciuto.

Capita di sentirla vibrare, la tenerezza, dentro i silenzi penetranti dell’addolorata Elena, la figlia,  che nonostante tutto, mantiene un contatto viscerale con suo fratello, a suo modo, e con suo padre, cercando di perdonarlo, come uomo fallibile, che ha tradito la madre, ma “pur sempre un padre” nella sua imperfezione.

Capita di percepirla , la tenerezza, che abita dentro al sorriso morbido di Michela, dentro la sua voglia di aprirsi e abbandonarsi all’altro, nel cercare una sincera connessione emotiva con l’altro, “sorrida, Signor Lorenzo… provi a sorridere di più” sussurra a bassa voce al suo vicino di casa, appena conosciuto.

Capita di intravederla, la tenerezza, nello sguardo spaesato di Fabio, nella vergogna provata, in seguito alla collera dirompente, nei confronti del migrante che intralcia il suo spazio familiare. Capita di  accarezzarla, la tenerezza,  davanti alla  confidenza intima di Fabio, dentro quella ferita dell’infanzia “ero pieno di paure, sempre solo…”, quel suo malessere alienante, il sentirsi non all’altezza come padre, “ non so mai cosa dire ai miei figli, ci provo, ma non ci riesco”.

Capita di cercarla e non trovarla, la tenerezza, nel dramma familiare che si consuma all’interno della trama del film corale.

Capita di aver paura di perderla, la tenerezza, lungo il viaggio del protagonista che pare, quasi fino alla fine, rifiuta di prendersi cura del suo cuore malato e fa di tutto per non abbattere i muri nel rapporto con la figlia. Interrogando lo spettatore attraverso i suoi silenzi e il suo voler stare così lontano e vicino al tempo stesso, vegliando Michela giorno e notte, nel letto d’ospedale.

Capita di viverla, la tenerezza, quasi fino al punto di voler esplodere, nell’ultima inquadratura del film, in quella perduta e infine ritrovata voglia di amare ancora.

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